Arrivava di notte, avvolta in un mantello nero. In mano il malteddhu: un martello in olivastro, rigorosamente nascosto in un sacchetto nero in lana grezza. Il suo aspetto richiamava immediatamente l’immagine stereotipata della morte. Nelle campagne della Sardegna era una certezza: quando lei era nei paraggi, qualcuno stava per morire. Parliamo di Sa Femina Accabadora, la donna incaricata di “staccare la spina” ai malati ritenuti terminali. Ma una nuova rivelazione sulle “sacerdotesse sarde della morte” apre scenari sconcertanti: alcune donne praticherebbero ancora – illegalmente, ma con il consenso popolare – l’eutanasia…
Un colpo secco all’osso parietale, in fronte, sulla nuca. Un cuscino sopra la testa, oppure la chiusura di naso e bocca fino a causarne la morte per soffocamento. Erano questi i metodi utilizzati dalla Accabadora per “accompagnare” il malato nel suo ultimo viaggio verso l’aldilà.
Una professionista della dolce morte, esperta di anatomia, capace di uccidere con maestria e metodo, che interveniva su richiesta dei cari o del malato stesso. Senza mai lasciare traccia. Al suo arrivo trovava le porte aperte e si recava direttamente nella camera del moribondo. Agiva da sola, poiché la presenza dei parenti avrebbe compromesso la pratica. Inoltre avrebbe generato complici e testimoni di un atto per certi versi umanitario, che, però, la legge classifica come omicidio, a tutti gli effetti. Una volta spogliati stanza e malato da ogni tipo di amuleto sacro o icona religiosa, che ne avrebbero ostacolato il distacco dell’anima dal corpo, la donna estraeva dal sacchetto il malteddhu e dopo una preghiera sferrava il suo colpo fatale.
“Quando ho iniziato a fare ricerca su questo tema era il 1981. – spiega Piergiacomo Pala, autore di Antologia della Femina Agabbadòra e direttore del Museo Etnografico Galluras – Nessuno ne voleva parlare, anche se poi, nel momento del bisogno, tutti sapevano esattamente a chi rivolgersi in paese. Era un vero e proprio tabù. Poi, con il tempo sono riuscito a raccogliere materiale e ad arrivare alla verità”. Va detto che, sul piano etico, la Accabadora non era considerata un’omicida, ma soltanto una sacerdotessa che poneva fine a lunghe e tremende sofferenze. Un lavoro duro e doloroso, certo, ma per alcuni necessario. Soprattutto nelle società agro-pastorali della Sardegna, dove non esistevano medicine per alleviare il dolore. E dove una persona in fin di vita portava oltretutto grandi disagi economici e grande sofferenza per l’intera famiglia. Non a caso, in cambio, la “sacerdotessa” non riceveva denaro, ma prodotti tipici del territorio. Curiosamente, spesso l’Accabadora, era anche colei che assisteva la puerpera, la levatrice, che si occupava quindi delle nascite. Un “impegno” trasversale e allo stesso tempo inquietante, tra la vita e la morte, dove di fatto veniva assistito l’intero ciclo di vita dentro le comunità contadine.
In Gallura, proprio nel Museo Etnografico di Luras, è conservato l’unico esemplare di malteddhu. A ritrovarlo, in uno stazzo – tipica casa di campagna della zona – è stato lo stesso Direttore, dopo 12 anni di ricerche. “Ero venuto a sapere che in quello stazzo aveva abitato una Femmina Accabadora. – racconta Pala – Sapevo che il martello doveva essere nascosto lì, ma non potevo immaginare dove. Un giorno, per puro caso, vidi degli operai che stavano demolendo il muretto di confine di quella casa. Notai che nel muretto, solitamente composto da pietre in granito a forma irregolare, vi era una pietra diversa, rettangolare. E proprio lì si nascondeva il martello”.
E’ difficile stabilire con certezza quando iniziò a diffondersi questa forma di eutanasia antica, anche se pare che le prime pratiche risalgano a 1500 anni prima della nascita di Cristo. In Sardegna sono infatti numerose le testimonianze legate a questa figura, ma quasi tutte vengono tramandate oralmente, di generazione in generazione. Quanto basta per confermare che la sacerdotessa della morte ha esercitato sull’isola fino a qualche decennio fa. Gli ultimi due casi documentati riguardano una morte avvenuta a Orgosolo nel 1952 e una avvenuta a Luras nel 1929.
Dentro La Pagina Mancante di questa vicenda emerge però un altro caso, ben più recente, che risale al 2003. Siamo nella Sardegna centrale, in un paesino nelle vicinanze di Bosa. La prova di questo intervento proviene proprio da una confessione religiosa, clamorosa, di una Accabadora pentita. “L’ho raccolta personalmente – assicura Pala –. E’ la testimonianza di un parroco che ha ricevuto in confessionale una Femina Accabadora”. Lì, dentro l’intimo segreto della confessione, la donna sarebbe crollata. Avrebbe raccontato di aver finito un uomo molto molto malato, soffocandolo con un cuscino. Questa confessione del peccato è avvenuta in marzo, a distanza di un mese dalla pratica stessa.
Alla luce di queste dichiarazioni dai toni certamente forti, è dunque lecito chiedersi: esiste ancora qualche Accabadora “attiva e praticante” nei piccoli centri dell’entroterra della Sardegna? Un fatto che avrebbe una rilevanza sconcertante, dove la tradizione popolare andrebbe chiaramente oltre la giustizia e la legge. Dove la cultura dell’eutanasia porterebbe un fardello pesante dal passato, entrando prepotentemente nel moderno contesto quotidiano. Dove il diritto al suicidio assistito resta di fatto un tema attuale e certamente molto discusso.
In collaborazione con Michela Cattaneo Giussani
La redazione della Pagina Mancante
Alessandro Cracco
@alessandrcracco
Matteo Cappella
@mrcape1
Credo che l’ eutanasia non e un reato dal momento in qui si verifica la mallatia terminale di una persona ,lasciare soffrire un malato terminale e peggio quindi io sono d’ accordo e poi vederlo soffrire tutti i giorni soffrono anche le persone che gli stanno vicino !